L'asserzione (vale a dire la deduzione in giudizio) dei fatti sui quali si basano le pretese e le eccezioni delle parti, deve trovare esplicitazione nel primo atto difensivo (atto di citazione o comparsa di risposta) o al più tardi – per quanto concerne il rito ordinario avanti il Tribunale – nella prima memoria ex art. 183, sesto comma, c.p.c., deputata alla precisazione ed integrazione delle domande. All'espletamento dell'attività asseverativa (diretta ad indicare i mezzi di prova relativi a quanto oggetto di asserzione) è invece riservata la seconda memoria e, nei limiti della prova contraria, la terza memoria previste dalla norma in argomento.
Da quanto appena detto consegue che ogni deduzione di natura assertiva (lo si ribadisce, volta a dedurre in giudizio i fatti) posta in essere oltre la prima memoria ex art. 183, sesto comma, c.p.c. rischia di essere considerata tardiva. E, se tardiva è la deduzione dei fatti, l'ulteriore conseguenza è la reiezione delle istanze istruttorie volte a fornire la dimostrazione dei fatti affermati per la prima volta nella seconda memoria ex art. 183, VI comma, c.p.c..
La distinzione tra attività assertiva (che trova il suo limite proprio nella prima memoria ex art. 183, sesto comma, c.p.c.) ed asseverativa è uno snodo importante del nostro sistema processuale, posta a garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa. E' infatti necessario che le parti prima deducano i fatti su cui poi saranno chiamati a fornire la prova (salvo, ma ciò è ovvio, gli effetti del principio di non contestazione di cui all'art. 115 c.p.c.), ponendo l'avversario nella condizione di replicare e di dedurre le istanze ed i mezzi istruttori che riterrà più opportuni.
In difetto della tempestiva deduzione dei fatti (lo si ribadisce, per quanto concerne il rito ordinario al più tardi nella prima memoria ex art. 183, sesto comma, c.p.c.), ne rimarrà preclusa la dimostrazione, con le intuibili, negative conseguenze sulla posizione processuale della parte assistita, che potrebbero addirittura compromettere l'esito del giudizio.
La distinzione tra attività assertiva ed attività asseverativa – e le conseguenti preclusioni rispetto ai fatti dedotti solamente nella seconda memoria – è principio acquisito in giurisprudenza, anche del Tribunale di Bergamo. Si citano le recenti ordinanze in data 10.1.2017 (nella causa 1840/16 R.G.) e 14.3.2017 (causa 2307/16 R.G.), non ammettendo le circostanze di prova dedotte relative a fatto “non anteriormente allegato”, o in quanto “vertenti su circostanze non tempestivamente asserite entro il termine per il deposito della memoria n. 1)”. Nel primo dei due giudizi il Giudice ha ribadito il principio con provvedimento emesso in udienza a fronte della richiesta del difensore di modifica dell'ordinanza ammissiva delle prove, confermando il suo provvedimento “con riferimento alla tardività dell'attività assertiva nella memoria n. 2) proprio perché conseguente ai fatti dedotti in citazione e dunque non costituente in parte replica alla controparte”.
In definitiva: il difensore deve fare molta attenzione a dedurre compiutamente, fin dal primo atto, i fatti posti a fondamento delle proprie pretese – citazione o comparsa di risposta che sia – o, al più tardi, nella prima memoria ex art. 183, sesto comma, c.p.c.; dovrà avere inoltre premura di sottolineare all'assistito la perentorietà dei termini previsti da tale norma, chiarendo la distinzione tra attività assertiva (di affermazione dei fatti) ed asseverativa (volti alla prova di quanto dedotto). In difetto, si rischia la reiezione delle istanze istruttorie e, di conseguenza, un non soddisfacente esito del processo.
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