La formulazione letterale dell'art. 2935 cod. civ. - che fa specifico riferimento al fatto che i soci o i terzi siano "direttamente danneggiati" dagli atti dolosi o colposi degli amministratori - impone una riflessione che parrebbe escludere l'esperibilità di una tale azione nel caso in cui il danno lamentato costituisca un mero riflesso dello stato di decozione in cui versa la società amministrata e poi assoggettata a pocedura concorsuale.
La norma dell'art. 2395 cod. civ. consente al “socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori” di agire per il risarcimento del danno.
Alla locuzione “direttamente danneggiati” va ricondotto un preciso significato giacché, opinando diversamente, l'inciso costiuirebbe un’inutile conferma del principio per cui in tema di responsabilità aquiliana il danno deve essere conseguenza immediata e diretta del dolo o della colpa dell'agente.
In buona sostanza, la norma in argomento pare prevedere un sorta di “diretto contatto” tra l’amministratore ed il terzo (o socio) che assume di essere stato danneggiato dal comportamento del primo.
Così – ad esempio – risponde ai sensi dell'art. 2395 cod. civ. l’amministratore che, in occasione di una trattativa, per poter godere di condizioni di maggior favore o per aggiudicarsi una commessa rappresenti all’interlocutore una situazione economica e finanziaria diversa da quella reale. E' in questi termini che la norma in questione richiede che il terzo (o il socio) sia stato “direttamente danneggiato” dal comportamento dell'amministratore. Più di un dubbio sorge invece rispetto all'ipotesi in cui gli amministratori si limitino a richiedere un finanziamento e l'istituto di credito lo conceda valutando i bilanci (in ipotesi non veritieri) pubblicati dalla società: mancherebbe in una fattispecie di tal fatta un comportamento degli amministratori specificatamente, "direttamente", indirizzato verso il soggetto che lamenta di avere subito un danno.
Ma anche a voler ritenere che il comportamento dell’amministratore non debba essere specificatamente indirizzato al terzo che assume di essere stato danneggiato, la norma impone un’attenta valutazione in ordine al l’esistenza del nesso causale tra danno e comportamento illecito.
In altri termini, l'art. 2395 cod. civ. qiuanto meno esige grande attenzione nell'individuazione dei comportamenti rilevanti per poter dare ingresso alla responsabilità diretta degli amministratori (oltre che dei sindaci) nei confronti dei soci, dei terzi e dei creditori sociali.
A tale proposito che la giurisprudenza mostra di essere particolarmente rigorosa, esigendo la prova puntuale e precisa che il comportamento colposo che viene addebitato agli amministratori sia in stretto nesso causale con il danno subito.
Si vedano in proposito Cass. 6.1.82 n. 14, in Giust Civ. Mass. 1982, fasc. 1 (secondo cui “la responsabilità ex art. 2395 c.c. ... concerne il danno direttamente ricollegabile, con nesso di causalità immediata, ai predetti fatti illeciti dell’amministratore”) e Cass. 2.6.89 n. 2685 in Giust. Civ. Mass., fasc. 6 (che parla di “danno patito in modo diretto in conseguenza dell’illecito commesso”). Per quanto concerne la giurisprudenza di merito si rimanda alla sentenza del Tribunale Bologna 19.1.93 (in Società, 1993, 1063) la quale, dopo aver precisato che “la colpa richiesta deve porsi in collegamento causale con il danno effettivamente riscontrato”, ha ritenuto che fosse “inverosimile che la supposta irregolarità dei bilanci ... fosse proprio rivolta a determinare e indurre” l’attore alla conclusione di un determinato atto. Ed ancora, di sicuro interesse Tribunale Milano 2.3.95 in Società, 1995, 1596, e Cass. 3.12.02 n. 17110 in Giust. Civ. Mass. 2002, 2100 (secondo cui deve sussistere un “nesso di causalità necessaria” tra l’inadempimento della società ed il comportamento di chi abbia esercitato le funzioni di amministratore), ed Appello Milano 23.6.04 (secondo cui i danni devono essere “ricollegabili con un nesso di causalità immediata all’attività illecita dell’amministratore”) e Tribunale Terni 6.2.06 in Giur. It. 2007, 5, 1158 (che ritiene imprescindibile accertare “un nesso di causalità fra il comportamento illecito degli amministratori e il nocumento subito dai soci (o dai terzi; n.d.r.) tale da incidere direttamente sul patrimonio di questi”); ed ancora, per quanto concerne la giurisprudenza di legittimità più recente, si rimanda a Cass. 23.6.10 n. 15220 in Giur. Comm. 2012, 2, II, 264 (secondo cui affinché l’azione ex art. 2935 cod. civ. possa essere esercitata è imprescindibile “la sussistenza del presupposto del “danno diretto” sul patrimonio del singolo socio o del terzo come conseguenza del comportamento dell’organo gestorio della società”).
Da ultimo, va fatto un cenno ad una pronuncia del Tribunale di Bergamo (sentenza n. 1270/2013) la quale, nel caso in cui il danno lamentato costituisca un mero riflesso dello stato di decozione in cui versava il debitore poi fallito, ha addirittura escluso la carenza di legittimazione attiva dell'attore rispetto alle domande di risarcimento del danno proposte ai sensi della norma in argomento.
In definitiva, non qualsiasi atto dell'amministratore (così come del sindaco) può dare ingresso all'azione prevista dall'art. 2935 del codice civile; l'atto doloso o colposo deve essere specificatamente diretto a cagionare al socio o al terzo un danno e, in ogni caso, deve sussistere uno stretto nesso di causalità immediata tra il danno ed il comportamento dell'amministratore o del sindaco della società.
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