di Nicoletta Giazzi


Il mutamento interpretativo in ordine ai criteri per il riconoscimento dell'assegno divorzile sancito dalla sentenza n. 11504/2017 della Prima Sezione Civile della Cassazione, ha prodotto, come prevedibile, un effetto domino. Molte infatti, anche dinnanzi al Tribunale di Bergamo, sono state le richieste, da parte dei coniugi onerati, di revoca dell'obbligo della corresponsione del predetto assegno. La citata sentenza, infatti, ha stabilito nell'”indipendenza economica” o “autoresponsabilità” il nuovo parametro in base al quale valutare la spettanza o meno dell'assegno (cd. fase dell'an debeatur) in capo al coniuge richiedente, a discapito del consolidato criterio che prendeva a riferimento il “tenore di vita” goduto in costanza di matrimonio. Trattasi di un cambio di orientamento significativo che avrebbe, senz'altro, meritato la preventiva pronuncia delle Sezioni Unite.

Ed è proprio tale pronuncia che si sta aspettando.

Nella pubblica udienza del 10.04.2018, infatti, le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione sono state chiamate ad un intervento chiarificatore, al fine di stabilire quale dovrà essere il parametro di riferimento per i Giudici tenuti a pronunciarsi in tema di assegno divorzile. E' necessario trovare un punto di equilibrio per giungere ad una indicazione equa dei criteri da considerare, così da non determinare, da un lato, indebite rendite di posizione e, dall'altro, una giustizia di “classe”.

Interessanti, al proposito, sono state le considerazioni svolte dal Sostituto Procuratore presso la Suprema Corte nel corso dell'udienza citata, che hanno colto appieno i limiti e la parzialità del criterio individuato nell'autosufficienza economica.

In particolare, il Procuratore ha invitato la Corte ad operare un ripensamento che contempli maggiore moderazione ed il bilanciamento delle diverse istanze ed esigenze delle parti. Se il criterio dell'autosufficienza economica può essere ragionevole quando inserito in una valutazione ampia del caso in esame, non lo è più nel momento in cui diventa criterio esclusivo e non consente di rapportarsi anche ai criteri stabiliti dalla legge, tra i quali la durata del matrimonio, le ragioni del fallimento, l'apporto dato da ciascun coniuge alla vita familiare ed il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

Del resto ogni singolo caso presenta le proprie peculiarità che il Giudice è chiamato a considerare e valutare; adottare un unico principio di giudizio, come quello indicato dalla sentenza Grilli, rischia di favorire una giustizia “di classe” che equipara situazioni profondamente diverse tra loro con pregiudizio per i soggetti effettivamente più deboli.

Per l'interpretazione dell'art. 5 della legge sul divorzio, poi, non si può non considerare quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, la quale ha ribadito, in sintonia con la giurisprudenza maggioritaria, che l'accertamento richiesto dalla legge sul divorzio per la concessione dell'assegno si articola in due fasi: quella del riconoscimento del diritto e quella della sua quantificazione.

In particolare, nella prima fase il Giudice è chiamato a verificare l'esistenza del diritto in relazione all'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati al tenore di vita esistente in costanza di matrimonio, mentre nella seconda fase il Giudice dovrà procedere alla determinazione concreta dell'importo dell'assegno, e ciò attraverso una valutazione ponderata dei vari criteri previsti (condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, della durata del matrimonio) che operano come fattori di moderazione della somma considerata in astratto e possono, se del caso, anche azzerarla in ipotesi estreme, quando cioè la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisce per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione.

E, scendendo nel dettaglio della questione interpretativa della costituzionalità dell'art. 5, comma sesto, legge sul divorzio, rispetto agli artt. 2, 3 e 29, rimessa alla Corte Costituzionale (il Giudice rimettente ha ritenuto che fosse illegittima l'interpretazione secondo la quale l'assegno divorzile, in presenza di disparità economica tra coniugi, deve necessariamente garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, risultando tale interpretazione anacronistica ed irragionevole per la “contraddizione logica” ravvisabile tra l'istituto del divorzio – che ha come scopo proprio quello della cessazione del matrimonio e dei suoi effetti – e la disciplina del divorzio, che proietta di fatto oltre l'orizzonte matrimoniale il “tenore di vita” goduto in costanza del matrimonio), quest'ultima ha ritenuto la questione non fondata atteso che “nella giurisprudenza vivente il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce affatto l'unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull'assegno divorzile. In effetti, prosegue la Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione, in sede di esegesi della normativa impugnata, ha sempre ribadito il proprio consolidato orientamento, secondo il quale il parametro del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio rileva per determinare in astratto (...) il tetto massimo della misura dell'assegno, ma in concreto quel parametro concorre e va poi bilanciato, caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati nello stesso articolo 5 - (Sentenza n. 11 del 11.02.2015)”.

Ciò vale a ribadire che vi sono una pluralità di criteri da considerare e che ridurre tutto ad un unico “parametro” – che sia il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio o l'autosufficienza economica – non è equo, né rispettoso del dettato normativo.

Si attende, dunque, la pronuncia delle Sezioni Unite, nella speranza che possa porre un autorevole punto fermo.


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